Scritti

senzadata - [Michela Lucenti] - Metodo

Parto dal corpo, non precisamente dalla danza.
Il movimento codificato, che richiede qualsiasi tipo di danza, presuppone una coscienza del corpo e molto spesso dobbiamo chiederci come per l’attore e il danzatore si possa raggiungere questa coscienza del corpo che ci permetterà poi di accedere alla tecnica interpretativa e di conseguenza al senso dell’azione.

Il punto fondamentale è la calma, cioè un’accettazione del momento presente in cui ci si trova, i nostri corpi sono una mappa di quello che viviamo e pensiamo, e non possono nascondere per molto tempo le trappole emotive e intellettuali in cui ci incastriamo.
Si dice molto spesso che un bravo attore debba essere svuotato, pronto ad essere riempito da qualcosa di diverso da sè, questa affermazione è un ossimoro, come può una creatura vivente e pensante essere vuota, non potrà mai esserlo, potrà imparare ad essere cava, cioè a conoscere così bene se stessa da far entrare altro, facendolo appoggiare al proprio sè, cioè a far sì che il proprio pensiero e soprattutto il proprio corpo diventi un involucro forte, pronto ad accogliere un’interpretazione, ma sempre raccolta dal proprio sè.

Questo concetto in apparenza complicatissimo è in realtà molto semplice.
Il performer a differenza del musicista ,del pittore non veicola il suo senso attraverso uno strumento altro da sè, ma decide di farsi esso stesso strumento e quindi la sua materia di lavoro non può essere altro che il suo corpo.
E questo naturalmente vale allo stesso modo per l’attore e per il danzatore, anche se questo concetto è ancora molto lontano nell’ambito culturale italiano, come se un attore potesse prescindere dal suo corpo e un danzatore dall’intenzione e dal pensiero, pensate che assurdità, eppure qualcuno si ostina ancora a tenere separate le cose, ma credo che noi non dobbiamo più occuparci di combattere questo pensiero ed entrare a piedi pari nell’era moderna.

Pensate semplicemente a quando qualcuno ci stimola o ci emoziona parlando ad una conferenza, non si limiterà a parlare di un argomento specifico, ma se conquisterà la platea lo farà con la sua umanità, dando la possibilità a chi ascolta di sentirsi partecipe, e che cosa è questa umanità se non la possibilità di cogliere da parte di chi ascolta l’uomo e la vita che sostiene il grande viaggio che il filosofo o lo scienziato o il medico o il politico o il religioso stanno facendo?

Il teatro in quanto atto comunitario vive delle stesse leggi. Che cos’è un Otello senza intuire la peculiarità della persona che lo sta interpretando o perchè ascoltare le variazioni di Bach vedendo qualcuno che si muove senza capire il pensiero con il quale il danzatore le sta interpretando, allora molto meglio leggersi Shakespeare o ascoltare Bach da soli per filtrarli dalla nostra stesso pensiero e dal momento emotivo che stiamo vivendo.

A questo punto basterebbe pensare che il lavoro di un interprete è assolutamente un lavoro di sfogo fisico ed emotivo totalmente autoreferenziale, ma chiaramente non è così e qui entra in campo una riflessione appunto sulla metodologia che si può applicare per lavorare con rigore ad un processo di verità.

Partire dal corpo per me significa provare a partire dalla verità, e molto spesso la verità su di noi ce la fanno scoprire gli altri. Tentare un’attivazione del corpo e del senso, (perchè non c’è nessun movimento che non produca in chi lo compie un pensiero, anche irrazionale) attraverso uno spostamento del pensiero dal sè, cioè occupandosi realmente di un altro corpo.

Dopo quasi vent’anni di insegnamento (perchè a ventanni ho cominciato ad avere i primi ingaggi come insegnante) ho capito che per me era fondamentale sia con gli attori che con i danzatori partire e stare a lungo sullo studio molto semplice di attivo -passivo. Un esercizio fisico che consiste nel far compiere all’altro, attraverso un’impulso, un piccolo spostamento fisico, e subito dopo accettare che l’altro stimoli te con un impulso che tu dovrai elaborare prima di intervenire nuovamente sull’altro. Su questo stupido esercizio c’è materia di lavoro per anni, perchè contiene moltissimi elementi dell’arte del fare teatro.

Saper condurre senza violenza con delle idee sceniche.
Lasciarsi condurre veramente, quindi sorprendersi.
Capire che essere passivo contiene un’attività.
Sapere che essere attivo contiene una passività.
Porsi in uno stato d’ascolto totale in entrambe le posizioni.
Pensare che il dialogo contiene respiro per essere organico.
Imparare a non fare male e a non farsi male.
Avere un corpo pronto fisicamente allenato all’imprevisto.

Avere una mente duttile alla novità e continuamente all’invenzione.
Saper accogliere anche quando si rifiuta, o si è violenti, imparando il grande gioco del teatro. Saper tenere a bada le proprie emozioni perché c’è qualcosa di più urgente e pericoloso di cui occuparsi (magari sostenere l’altro che sta per cadere).
Ascoltare le proprie emozioni che ci vengono dall’azione e non da qualcosa di pregresso.
Ecco questi sono solo alcuni degli elementi su cui si può ragionare attraverso questo esercizio fondamentale di relazione.

Quello che ho imparato è che esercitarsi alla relazione è centrale nell’allenamento dell’attore e del danzatore, è il principio base su cui si fonda un’equipe di lavoro, ogni spettacolo non è altro per me che un progetto comunitario, un gruppo di persone che hanno un obiettivo che devono perseguire ogni sera (che è poi raccontare una storia e per me è indifferente che la storia sia e solo fisica o con canti e parole) e l’obiettivo deve essere mantenuto vivo attraverso una prontezza fisica e mentale che rende ogni sera imprevista perché ogni sera le persone che condurranno l’azione saranno diverse, quindi anche se il materiale testuale o fisico sarà disegnato alla perfezione, ecco che entra in gioco l’umanità, quella di cui facevamo l’esempio prima immaginando lo scienziato alla conferenza, quell’allenamento di metodo che renderà pronti gli interpreti ad ascoltarsi realmente ogni sera, costruendo partiture che non si possono fare senza attenzione e senza coscienza, facendo sì che ogni sera sia speciale, insomma diversa, viva e che quindi includa chi guarda, che non assisterà al discorso specifico ma a qualcosa che pur essendo specifico, li farà sentire inclusi perché parte di un discorso universale cioè la relazione tra creature.

E l’interprete quindi non può andare in scena da solo?
Può farlo, per me passando attraverso un percorso di lavoro fortemente comunitario, che già implica un grande lavoro su di sé. E’ necessario aggirarsi per lavorare su di sé con onestà, senza bleffare, quindi occorre aver esercitato con tanta generosità l’ascolto e avere tanta esperienza.
Ma sul lavoro da soli parleremo in altro capitolo.

Michela Lucenti

2/05/2011 - Il branco

Scrivere in due significa mettersi nella condizione di scrivere fra noi due.

E così, ciò che diventa più importante è questo spazio intermedio dove pur sbagliando si inaugura una certa pratica del pensiero. “il deserto aumenta, ma popolato da sempre più gente”.
In un certo senso scrivere è sempre lasciare delle tracce.
Il modo in cui si muove uno stormo di uccelli. Il modo in cui si muove una muta di lupi. Il modo in cui si organizzano gli spazi, i tempi, i ritmi, le immagini, le forme, la sete, gli obiettivi, le abitudini, i passati, le cicatrici, i tic, le posture… c’è un legame che fa si che ciò che si fa e ciò che si dice risuona a tal punto che acquista una consistenza, diventa espressivo.
In questo senso l’autore è sempre una maschera dietro cui si nasconde un corpo più complesso. Sia nel caso che sia un individuo solo, sia nel caso sia un gruppo, un branco, una comunità di individui, o addirittura, cosa ai giorni nostri forse non più possibile, ci sia un popolo.
Ho letto opere scritte da un popolo, ci sono opere scritte da un gruppo, ci sono opere scritte da un individuo solo.
Ci occupiamo di quelle scritte da un gruppo, da un insieme di corpi, dalla relazione che si istaura fra più individui.
Il concetto di gruppo è vago e slitta dal concetto di comunità gerarchica, dove ci sono ruoli rigidi, distribuzioni di compiti, carriere, forse elezioni, forse diritti di sangue…fino al concetto di comunità di pari, libera associazione di individui che si scelgono per motivi comuni…
Nel nostro caso non ci siamo mai riconosciuti in un gruppo di pari, perché non eravamo pari. È molto importante sapere di non essere pari, di non cadere nella tentazione di semplificare tutto sino a questo estremo.
D’altra parte non ci siamo nemmeno mai dati una struttura, delle cariche vere e proprie, la nostra organizzazione non è mai passata sotto uno schema rigido di ruoli fissi, compiti, attribuzioni vere e proprie.

Il nostro concetto di gruppo credo sia rimasto fra questi due estremi, ma si sia mantenuto volutamente vago. Un’organizzazione vaga fra gruppo organizzato e collettivo di pari, fra impresa e libera associazione, fra scuola e cruda competizione, pensiero libertario e distribuzione di ordini.
Lo spazio di azione è limitato da questi estremi ma la precisione del movimento, la logica dello spostamento, l’esatta risultante non dipende da nessuna di queste categorie.
Cominciamo col dire che una costante che riconosco di questa scienza vaga è che c’è sempre qualcuno che inizia l’azione.
C’è sempre un capo dell’iniziativa. Non può non esserci un capo branco. Prima caratteristica del capo branco è che non corre sempre con il branco. Spazialmente è un poco distinto. Traccia sempre percorsi un po’ più sotto e un po’ più sopra la strada principale che percorre il branco. Il capo è anomalo. È l’anomalo. Deve essere un poco strano e poco appartato. Anche quando è in testa è solitario. Negli stormi è evidente perché la forma dello stormo si addensa, fila, entra in spirale perfetta si distribuisce senza mai spezzarsi, mentre la testa dello stormo a volte spezza. Così come nelle mute dei lupi il capo sta sul cornicione, traccia il cornicione al di là del quale non si deve andare. Fuori da quella linea il branco muore. Il capo è lo spostato.  Il capo guida la fuga perché è il più spostato, è il più imprevedibile, il più inafferrabile.
In questo senso non importa che il capo sia il più forte, a volte è quello che ha più acciacchi. A volte il malato. Ma è questa sua anomalità che gli permette di tracciare la direzione e di essere seguito.
Non ci possono mai essere due capi, pena l’eliminazione di uno dei due. Se ci sono due capi il branco si sfascia. Il branco si divide e diventano due branchi.
Così come il capo non è il padre o la madre del branco. Tutte le volte che il capo diventa la madre il gruppo si snatura e si trasforma in famiglia. Il capo cessa di essere una guida da seguire, un apri pista, cessa di stare sul confine, e si posiziona al centro. Il gruppo invece che spostarsi si ferma attorno al capo. Non si forma un gruppo per filiazione.
Non apparteniamo a grandi famiglie di circo, non siamo figli d’arte. Non abbiamo debiti precisi nei confronti di un qualche modello particolare.
Il gruppo a volte si trasforma in una famiglia, ma per sbaglio o solo per fermarsi un poco e riposare…
Perché.
Perché non deriviamo da un vero e proprio passaggio di informazioni. Nessuno ha imparato le stesse cose di un altro. Nessuno. I nostri DNA sono troppo differenti per essere sospettati di qualche parentela intima.
Un gruppo non nasce per filiazione, non è una pianta dai mille rami e dalle mille foglie che nascono tutti dallo stesso ceppo.
Come nascono allora questi legami fra elementi così differenti.
Credo che i rapporti che stanno alla base, che legano, i componenti del gruppo siano simili alla simbiosi, ai ponti, ai contagi e ai parassitismi. Rapporti interregno. Tutto è più simile a questi tipi di agglomerati che legano la natura in modo forse molto più frequente delle filiazioni.
Il legame fra l’orchidea e l’ape, il legame fra il virus e l’animale creano dei corpi trasversali molto durevoli. Molto più durevoli del legame con i genitori e a volte molto più durevoli della vita di una razza.
Per questo in un gruppo non ci sono delle cose precise che ognuno deve compiere, non c’è nessuna imposizione di natura.
Ognuno fa i fatti suoi ma sono fatti di tutti.
Non c’è nessun riscatto morale, non c’è nessun ricatto o pretesa. Nessuno dovrebbe essere quello che da sempre tutti si aspettavano che sarebbe dovuto diventare. Come i genitori aspettano di riconoscere il loro viso nel volto del figlio maturo. Non c’è nulla da ricostruire, nessun debito prenatale.
Ognuno fa i fatti suoi ma sono fatti di tutti. Ciò significa che ognuno si comporta come uno sconosciuto, come un matto ma tutti si comportano di conseguenza.
Questo è il concetto di sciame.
La disposizione prima di tutto spaziale del gruppo.
Come la nebbia, le zanzare, le mosche.
Cosa c’è alla fine della nebbia… perché una nuvola di mosche finisce… perchè questi agglomerati sono un gruppo, un insieme, in continuo movimento si propagano senza una forma precisa, ma con un bordo. Come si fa a costruire il bordo che mantiene il gruppo unito?
Una mosca non è niente, non esiste. Esistono solo le mosche. Perché fanno voli irrazionali, imprevedibili a loro stesse, e tornano indietro solo quando nel loro campo visivo perdono le altre mosche. Lo sciame si tiene in questo modo. Faccio qualsiasi cosa fino a che non rischio di perdere gli altri.
Così si formano questi armoniosi e giganteschi movimenti di individui. Ci si dimentica della propria natura e si diventa parte attiva di un corpo altro che evolve. Gli esteti dicevano che ci si dimentica della terra e si comincia ad appartenere al cosmo. Il cosmo, l’arcata di questi punti che non hanno mai avuto una identità propria, esistenze per eccellenza vaghe, indefinibili, ma che per eccellenza costituiscono lo sciame più rigoroso di tutti i tempi.

Uno sciame infallibile, rigorosissimo, ma fatto da individui sconosciuti, senza volto senza qualità specifiche, senza eroismi, senza razza. Brillano per questo grande movimento all’unisono, altrimenti tutto sarebbe spento e non sarebbero più nulla.

15/10/2009 [Emanuele Braga] - La forza dell'autismo

Appunti dalla piattaforma di lavoro DETRITI, Balletto Civile 2009

Io amo le bestie, io amo le taglie forti, i amo i pedofili, io amo i carnefici, io amo mia madre.
C’era la storia di questo ragazzo che frequentava chat erotiche S/M. Questo ragazzo era fidanzato e si sarebbe presto spostato. Non aveva mai praticato sesso sadomaso, ma aveva speso parecchio tempo al computer negli ultimi mesi con una donna in una di queste chat. Mentre si avvicinava il giorno del suo matrimonio si riprometteva di abbandonare questa sua attività erotica una volta sposato. Per questo motivo decise di fare un conclusivo e primo incontro in un club con questa donna con cui chattava. Avevano concordato un modo per riconoscersi una volta giunti all’appuntamento che si erano dati. Lei gli scrisse che era bionda, con una maschera di pelle e un collare da cane al collo. Quella sera il ragazzo si ubriacò un pochettino e con sufficiente determinazione entro nel club in cui si erano dati appuntamento. Vide una vecchia donna bionda con maschera di pelle e collare da cane al collo vicino al bancone. Si avvicinarono e si salutarono. Segui un poco di silenzio mentre si fissarono negli occhi per qualche secondo. Il ragazzo riconobbe che quella donna era sua madre.
Il mondo della pornografia è una bomba nel mondo della famiglia tradizionale.
Non è un caso che gli organi ufficiali della società tradizionale come chiesa, partiti reazionari, e moralismo progressista, hanno sempre convenuto su alcuni attacchi alla cultura pornografica. Questi attacchi si possono radunare attorno ad alcune delle seguenti assunzioni:
Eccessiva confidenza agli sconosciuti.
È pericoloso. E potrebbero venire malattie incurabili.
È irresponsabile. Perché è una fuga irrealistica dalla vita nomarle, dai tuoi doveri e dalla famiglia.
Crea dipendenza. Ancor più delle droghe non ne si può fare a meno.
Incita a cercare roba sempre più strana e sempre più forte.
Ha a che fare con lo sconosciuto, con il lato oscuro delle cose.
E io credo che purtroppo per la società tradizionale tutte queste assunzioni siano vere.
La mia posizione è che non si possa fare a meno di sapere che la pornografia è un dato innegabile. Che è sicuramente vero che parla di una ritualità del corpo che rappresenta la nostra società.
Gente che vede del sesso e vuole sempre più vederlo. Gente che traduce la propria sessualità nella visione del sesso e vuole sempre più vederlo. Gente che fa sesso, e vuole sempre più farlo.
Che emozione provoca la pornografia. Potremmo affermare che la pornografia è priva di emozione?
Che cosa è l’emozione?
L’emozione è il nesso che unisce il corpo alla coscienza che si ha del proprio corpo.
L’autismo (patologia della mancanza di emozione)  può definirsi l’incapacità di sentire l’emozione dell’altro o di proiettare nel corpo dell’altro il piacere o il dolore che si prova.
La visione pornografica non produce un effetto emotivo. Noi continuiamo a ripetere l’atto della visione. E così si crea questo nuovo rito collettivo del corpo. Non poter fare ameno di ripetere l’atto proprio perché non ha esaudito la sua promessa emotiva.
Io credo che questo concretezza e la potenza insita in questo rituale, che per sua definizione è sicuramente perverso e patologico, sia un arma contro la società tradizionale. E che una certa ironia che utilizza questi codici possa creare una processo gioioso di liberazione dal moralismo.
Lui vuole soltanto vedere senza alcun sentimento e piacere per la persona che sta guardando.
Credo che una pornografia indipendente, che sviluppa con coscienza il processo che la pornografia fa incessantemente alla società tradizionale, si possa considerare una forma di piacere ironico, dove i codici sociali  vengono estrapolati dal loro contesto e vengono sovvertiti in qualcosa d’altro.

Emanuele Braga

15/10/2009 [Emanuele Braga] - Per uno spettacolo che parla di una storia di scambisti

Appunti dalla piattaforma di lavoro DETRITI, Balletto Civile 2009

Ripartiamo dalle identità. Una delle affermazioni che sento spesso in conversazioni di tutti i giorni è che c’è un grande gap fra ciò di cui la cultura di massa e la politica parlamentare si occupa e la reale evoluzione della società. Il 30% della popolazione dell’occidente (Nord America e Europa) non ha relazioni di coppia di lunga durata, il 20% ha relazioni di coppia di lunga durata ma non è sposata, per arrivare a meno del 20% che si è sposata almeno una volta (all’interno di questa percenutale cala ulteriormente il numero delle coppie che mantengono il vincolo matrimoniale per tutta la vita). Queste percentuali medie calano drasticamente a favore della coppia aperta mai ufficializzata dal matrimonio (oltre il 90%) se si chiude il cerchio nelle regioni del nord Europa come la Danimarca, l’Olanda e la Scandinavia.
Il tutto per dire che non ci vuole uno scienziato per capire a colpo d’occhio che la crisi del patriarcato è radicata nella società occidentale e in alcune regioni si è già forse stabilizzata da una generazione.
Se si considera che all’interno delle coppie sposate e quelle non di lunga durata c’è una percentuale sicuramente rilevante di coppie gay e lesbiche, è chiaro che il nucleo tradizionale famigliare rappresenta meno del 20% delle pratiche sessuali e di riproduzione del mondo che viviamo. Ragione per cui è sempre più lontano dal rappresentare un modello sia per il presente che per il futuro.
Parlando dell’Italia sappiamo bene che tutta la politica e la cultura di massa fatica a trattare seriamente questo dato. Nessuno faticherà a notare come i mass media e i politici quotidianamente diano per scontato in ogni messaggio di rivolgersi in primo luogo alle “famiglie italiane” a tutti i padri e le madri, ai nostri figli ecc… non parliamo della chiesa cattolica che fa della famiglia tradizionale l’unico interlocutore sociale. Questo messaggio è un messaggio retorico di nuovo irreale e ideologico.
Il paese reale è fatto di reti e comunità che rappresentano la maggioranza della popolazione che non vive da tempo all’interno del modello di famiglia tradizionale. Queste comunità stanno costruendo una loro identità, ma apparentemente al di fuori della cultura di massa.
Leggo ad esempio un’intervista sul sito di Sergio Messin (nota 1), nato a Roma (“dove odiamo la chiesa con grande vigore” questo l’incipit nella nota biografica) ora trasferitosi a Chicago (US). Personaggio variegato che si muove fra musica elettronica, recensioni musicali, esperto di nuovi media, antropologo, e mondo della pornografia in rete. A metà degli anni novanta segue il rapporto fra tecnologia e le  pratiche sessuali. Da qualche anno presenta  uno spettacolo live che è un incrocio fra mostra fotografica e talk show sul Realcore.  Il Realcore dice è uno neologismo da lui proposto per creare delle comunità in rete che mostrano le loro pratiche sessuali mediante foto. Mi stupisce questa sua esemplificazione per spiegare il termine dal lui inventato:
“il Softporn è sesso simulato, l’Hardcore è sesso esasperato il Realcore è ciò che la gente normalmente fa per soddisfare i suoi desideri” (nota 2).
Continuo con la mia ricerca e mi imbatto in Regina Lynn (nota 3) una delle più influenti esperte sul rapporto fra sesso e tecnologie,  consulente in rete sulle pratiche sessuali nel mondo anglosassone. Gestisce un Blog a cui la gente si rivolge, suggerisce cose, ed è attiva dall’adolescenza nell’enorme fenomeno delle chat erotiche. Parla in una sua dichiarazione, del momento in cui si è affacciata per la prima volta ad una chat erotica. Mi stupisce questa sua affermazione. Dice che il sesso scritto le ha fatto conquistare il rapporto col suo corpo. Pensare l’atto sessuale le ha sbloccato un godimento fisico che altrimenti non avrebbe avuto. Prima di questa pratica delle chat il suo corpo di adolescente era intrappolato in un automatismo che in tutta sincerità non le procurava piacere. Ma conquistare la libertà di pensare cosa il corpo può fare le ha aperto la strada al godimento, oltre che a ben vedere ad una identità professionale e intellettuale.
Pur non essendo un client di siti porno e quindi a mio modo nuovo dell’ambiente, mi sembra sempre di più popolato da gente in realtà non professionista. Non penso che la maggioranza della gente abbia una vita sessuale che passa per la rete, ma penso sempre di più che l’enorme mondo del porno in rete rappresenti in modo trasversale la maggioranza delle persone. La maggioranza non è gente che si nasconde, non è gente che scherza e si scandalizza, non è gente emarginata socialmente, non è gente che non si può permettere altro sesso che quello in rete.
Il senso comune direbbe che il porno porta alla violenza, all’isolamento dalla vita reale, alla dipendenza, alla pedofilia. Ma tutto quello che capisco nega del tutto questa strada.
Se devo essere sincero penso che parlando di porno oggi non si debba affatto parlare di esibizionismo e fuga ma di una sorta di ricerca di credibilità. Tutte queste immagini, queste parole nelle chat, questo modo informale e al tempo stesso funzionale nell’organizzazione grafica dei siti mi parla di una gran desiderio di sentirsi credibili nell’affrontare a viso aperto il proprio piacere.

È per questa ragione che la mia ricerca sul porno nel web si mette sulle tracce delle prostitute. Come ha reagito il mercato del sesso? Dove sono nel web le persone che da sempre fanno del sesso il proprio mestiere?
I Sex Workers (nota 4) (lavoratori del sesso) hanno trovato in internet uno strumento di emancipazione e indipendenza. Dalle case chiuse e dalla strada le prostitute in molti casi sono riuscite attraverso internet ad autogestire i propri servizi, grazie alla privacy che la rete sottintende e alla sostanziale mancanza di sistemi di controllo. Controllo non tanto della legge (si intende) ma degli sfruttatori.
Capisco che attraverso la gestione di una pagina web è possibile da parte della professionista offrire appuntamenti e gestire anche il grado di “compromissione” che desidera offrire. La prositituzione diventa così più una specie di impresa autogestita, e in molti casi si trasforma in una specie di comunità di clienti che una persona decide di gestire. La professionista del sesso ha la possibilità di frequentare la sua clientela offrire sesso a pagamento e intessere un rapporto di consulenza che esula anche dal contatto fisico, e in alcuni casi inaugura rapporti che non vengono sempre pagati in denaro. Le prostitute entrano in piccole reti fra di loro e usano queste comunità per difendersi da eventuali pericoli. Propongono ai clienti di creare propri profili e li schedano per condividere fra di loro la conoscenza delle persone che frequentano i loro servizi. Si creano così delle blaklist (nota 5) di clienti violenti, o inaffidabili, o troppo noiosi… sotto il nome di DON’T FUCK WITH US, o NO CALL NO DATE…
Trovo una credo famosa prostituta californiana, non più in attività fisica, Veronica Monet (nota 6), che organizza un sito proponendo diverse rubriche piuttosto interessanti come the things women should never do for free (cose che le donne non dovrebbero mai fare gratis), o Escorts as therapists (puttane come terapiste) ofreedom from sexual shame (libertà dalla vergongna sessuale).

Faccio un breve punto, una riflessione. Sono partito osservando che la società sta cambiando  mentre la cultura di massa avrebbe tutto l’interesse a fare come se non stesse accadendo nulla. Ho osservato che il vecchio sistema fordista famiglia stato partito (che l’ideologia nazionalista ancora sta cercando di proporre come il paradigma naturale) in realtà si è sbriciolato dal basso.
Sotto questa superficie che tutto ammanta ho cercato di analizzare cosa sta succedendo e come.
Un primo rilevo è che la tecnologia ha un ruolo centrale. La cultura di massa si è accorta che deve operare come una sorta di falsa coscienza necessaria, e cioè mantenere i soggetti in una specie di immaginario irreale dove tutto può rimanere come è sempre stato. E ha capito che per fare questo deve essere pubblicità, pubblicità del mondo così come è. Non importa la realtà, la cultura di massa deve essere sostanzialmente spettacolo.
Allo stesso tempo ci sono delle pratiche dove il rapporto fra tecnologia e reale ha avuto la possibilità di creare delle comunità che sono il vero luogo, o il vero nodo in cui si svolgono le rivoluzioni culturali e sociali che stanno avvenendo.
La cultura di massa cerca di costruire identità sponsorizzando una patria naturalmente così come è sempre stata, fagocitando qualsiasi cosa nuova come un aspetto innocuo, o un colore accessorio, un di più che può tranquillamente coesistere al vecchio solo se depotenziato della sua violenza.
La subcultura agisce invece senza farsi pubblicità, ma intessendo delle relazioni che sono già pratiche in atto.

Credo che sia corretto definire questo modo di agire come un’arte pre-figurativa (nota 7), nel senso che chi agisce non si rifà ad un modello ma fa già quello che si immagina. Le tecnologie hanno un ruolo essenziale ma principalmente nel loro valore strumentale, nel loro statuto di mezzo di produzione, produzione di relazioni, e non come invisibile  via di fuga in un paese irreale che è la copia fittizia del mondo come è sempre stato.  Questo modo di agire è inedito ed è un punto di forza, credo, della parte attiva della nostra contemporaneità. Credo sia un punto di forza perché sta dimostrando di non essere solo un movimento dispersivo… o un treno senza pilota…(come obbietterebbe subito la coscienza reazionaria) ma una dispositivo che crea comunità e identità.
Ulteriore aspetto, all’interno di queste pratiche spesso ritroviamo l’eredita della coscienza dell’attivista politico. Molto spesso infatti queste pratiche che sono nate semplicemente agendo, in modo sporadico e poi rafforzandosi come rete di condivisione, sono la risposta già in atto a battaglie di difesa dei diritti dell’individuo.

Molto spesso l’industria culturale blocca il presente in un passato irreale. Questa logica invece attiva e prefigurativa, a ben vedere, fa si che il passato non perdoni mai il presente. Nel senso che questa logica funziona cercando di dare una risposta attiva ai traumi del passato.  In qualche modo il passato di per sé non perdona il presente nel senso che il presente continua a fare emergere i sintomi dei traumi passati. Occorre farsi interpreti di questo movimento. Non nascondendo i propri sintomi nel cassetto, ma capendo che noi siamo loro. Fino in fondo. Credere nei propri sintomi a volte è percepito come molto violento ma è quello che dobbiamo fare.

Per concludere questa riflessione voglio spostare il punto di vista ora sul soggetto. Ho parlato di sociologia, di tecnologia, ho dato coordinate sui siti web, ho fatto accenni alla politica, e ho fatto un po’ di critica ai dispositivi ideologici, ma cosa vuol dire dal punto di vista soggettivo tutto ciò?
Voglio fare questa osservazione.  A volte abbiamo un trauma, come essere intrappolati in un rapporto di coppia senza poter dire che non mi soddisfa, o non riuscire a godere, o avere ucciso un’innocente per mano della tua patria, o essere brutto, o credere di non essere desiderato, o lasciare morire un cliente che crede nella tua assicurazione sanitaria, o non riuscire a prenderlo in bocca, o rimanere un gregario perché non hai il coraggio di chiedere la tua paga… quello che di solito si fa è fare finta che questi sintomi non esistano. L’immaginazione è una grande sala da make-up, e la cultura di massa non fa altro che trasformare questa sala in un negozio.
Che cosa è una perversione? Il più delle volte è trovare una risposta a questi sintomi senza ricorrere a trucchi.
A livello soggettivo la fantasia è il nostro più potente mezzo di produzione, e se la cultura è l’industria della fantasia, dobbiamo difendere il controllo della propria fantasia come un diritto. Rientrare in possesso dei mezzi di produzione nell’industrializzazione della fantasia(nota8). Vale a dire identificarsi nelle nostre perversioni. Cercare di garantire ai nostri sintomi una credibilità. Sempre.
Nel percorso che ho seguito prima ho mostrato come il PORNO piò diventare SESSO. Di come cioè il sesso come spettacolo può diventare il mio modo di fare sesso. E basta. Di come un sintomo, nel senso di un bisogno la cui risposta è sconosciuta e che quindi è vissuto come trauma, diventa la risposta stessa.
L’unico modo per accettare il proprio trauma è seguirlo. Agire. Farlo diventare vero. Fare diventare il trauma vero.
Uno studente chiedeva a Freud quando si può considerare l’analisi conclusa… e Freud diede questa risposta. Quando il paziente smetterà di vivere l’analisi come un problema.

Quando il paziente smetterà di vivere l’analisi come un problema. Questa frase credo che si possa leggere sia al dritto che al rovescio. Da una parte dice che il soggetto deve smetterla di viversi come un problema, una colpa da redimere. Ma al rovescio ci dice che l’analisi continua ne più ne meno. Se  il viversi come un problema viene meno l’individuo smette di essere paziente e cioè uno che subisce. Ma che ne è dell’analisi? Qui Freud fa il prestigiatore, perché sottintende che l’analisi deve continuare comunque. Ed è questo credo che può definire la violenza. La violenza è questa inesorabilità nel capire esattamente cosa devo fare. Questa coincidenza fra azione e identità, comprensione e liberazione, dolore e godimento.

(nota1) www.radiogladio.it
(nota2) http://www.realcore.radiogladio.it/blog/archives/category/porno
(nota3) http://www.reginalynn.com/
(nota4) http://www.iusw.org/http://www.nswp.org/
(nota5) http://www.walnet.org/csis/groups/pony.html
(nota6) http://veronicamonet.com/colleges.php
(nota7) Questo concetto di arte pre-figurativa, viene presentato in Tim Jordan, Azione Diretta, ed. Eleuthera.
(nota8) alcuni esempi rimanendo nel mondo del netporno: immagini scaricate dalla sezione store del sito http://www.fuckingmachines.com

Emanuele Braga

15/10/2009 [Emanuele Braga] - Identità, Nazionalismo, Ideologia

Appunti dalla piattaforma di lavoro DETRITI, Balletto Civile 2009

Il capitalismo contemporaneo credo non sappia esattamente dove sbattere la testa. Le grandi analisi degli esperti internazionali non riescono a restituire un quadro della situazione. Siamo stati all’interno di quei movimenti che dalla metà degli anni novanta si opponevano in modo critico al capitalismo globalizzato.  Il movimento era variegato e composto da soggetti anche molto diversi fra loro. Si è creduto a tratti anche di potere e dovere proporre una alternativa totalizzante sia al capitalismo criminale che alla faccia sana del modello neoliberale…
Ma credo che sia il capitalismo che i movimenti antagonisti si siano rivelati sempre meno totalizzanti e definibili, e si siano sempre più disgregati in molteplici aspetti.
Il capitalismo ha sicuramente una componente criminale, ci sono dei potenti che hanno giocato sporco, hanno piegato le regole del libero mercato a loro piacimento, hanno rubato, e hanno governato per impedire che nascessero degli orgasmi di tutela e di controllo… ma sarebbe sicuramente riduttivo cercare di spiegare questa crisi del sistema economico cercando dei colpevoli morali.
Assistiamo tutti i giorni sulla stampa di tutto l’occidente a questo tentativo di voler salvare il salvabile. Di certo è un tentativo rassicurante spiegare la crisi dicendo per l’ennesima volta che il sistema sarebbe sano, se non ci fossero persone cattive che se ne approfittano.
Per quanto mi riguarda il sistema non è sano indipendentemente da chi lo governa, e ad ogni modo credo irrilevanti su questo piano (e quindi retoriche e anacronistiche) queste distinzioni fra sano e malato, legale ed illegale, sicuro e insicuro.
Se qualcosa abbiamo imparato sulla nostra pelle è di non ossesionarci più per questa totalità, per questa risposta ultima ai problemi. Credo che il mondo stia andando avanti con grandi cambiamenti sociali e culturali. E che molti individui in reti di relazioni e comunità, abbiano elaborato risposte attive lasciandosi alle spalle nella pratica vecchi modelli di riferimento.
Penso alla crisi del patriarcato e al cambiamento nelle pratiche sessuali e all’evoluzione della gestione della famiglia.
Penso alla rivoluzione di internet, alla evoluzione del concetto di proprietà e condivisione delle risorse, dell’informazione e degli archivi.
Penso alle intelligenze creative e alla capacità individuale di costruirsi una coscienza critica e una identità professionale.
L’attivismo politico e culturale credo abbia dato alla luce delle possibilità concrete e pratiche di vita di cui non parla la cultura di massa.
Credo che il mondo che oggi viviamo veda opporsi una dittatura mediatica da una parte e  tante comunità e reti fatte di individui capaci di una coscienza critica e di pratiche alternative dall’altra.
Questa dittatura mediatica non credo sia pilotata da un dittatore, ma credo che abbia un modo di agire totalitario.
La cultura di massa è ideologica e credo sia utile e necessario attaccarla, chiedendosi come funziona come cambia, se cambia, e cosa determina.
Ho detto che il capitalismo è in crisi, e di brutto. Ma credo che proprio per questo stia crescendo una politica nazionalistica dove il nazionalismo si autorappresenta come pubblicità di se stesso.
Credo che il nazionalismo stia diventando una strategia di pubblicità, cioè la pubblicità per la conferma della società capitalista così come è. Con il diffondersi della cultura pop il nazionalismo è interamente spettacolo. C’è nel nazionalismo come ideologia culturale un camuffamento costante della violenza, la violenza non esiste più, non è più mostrata, tutto è appianato nel pubblicizzare un sentimento condiviso e “naturale” dove tutto deve essere percepito come divertente e popolare.
Il nazionalismo sempre più si autorappresenta come un mondo dove non ci sono più vittime, mentre nel reale xenofobia, ossessione per la sicurezza e stupidità nel senso peggiore vengono inflitte senza che il dolore si possa vedere.

Emanuele Braga

10/10/2009 [Emanuele Braga] - La danza accanto a ciò che accade realmente

Appunti dalla piattaforma di lavoro DETRITI, Balletto Civile 2009

Da artista credo che il contesto in cui operiamo sia molto caotico. Sto parlando del rapporto fra arte e mercato e attivismo politico. Abbiamo sempre ritenuto importante la coscienza di dove si produce, come si produce e dove si va a mettere il proprio operato. È per non perdere questa coscienza che tento di esplicitare questo dibattito.

Dovremmo credo essere noi artisti e noi operatori dello spettacolo ad avere il coraggio di confrontarci a viso aperto, creando delle reti reali dove questo piano di discussione non rimane confinato a dopo cena di artisti e passeggiate fra amici attivisti e due battute nei centri sociali.

C’è chi dice che siamo in un momento dove le subculture stanno vivendo un momento molto critico. Tutte quelle esperienze per cui la musica il teatro e la cultura erano state delle esperienze di rottura vera con la cultura di massa ci sembrano concluse. Sembra che il segno più forte che hanno lasciato è quello stile riciclato e riconciliatore della moda giovane fintamente aggressiva, innocuamente violenta…
Io credo che non sia vero. Ci sono delle esperienze verticali che sono in rapporto con ciò che accade nella realtà, e si stanno sviluppando con vitalità e stanno costruendo identità.
Dall’altra parte noto che c’è una cultura di massa che opera come una industria e che è in lotta con una società attiva e in evoluzione.
Le tecniche più sviluppate di comunicazione mostrano i loro muscoli nella grande industria della pubblicità, del cinema di animazione e d’azione, nell’industria discografica pop, nei videogame, nei prodotti super finanziati del collezionismo d’arte, e seppur in misura minore nelle grandi riserve di genere come l’opera e il balletto classico.

Non credo sia questione di criticare questa industria in modo pretestuoso e generico, sperando di restituire al teatro di ricerca un po’ più di soldi, visibilità, dignità e potere, quanto di ricostruire una linea che dia un senso chiaro al nostro spazio d’azione.
A noi non importa nulla criticare i poteri forti in nome di una più equa distribuzione delle risorse. Non stiamo ad elemosinare soldi, non è una questione quantitativa, ma è in ballo la qualità e il senso dell’azione artistica. Tantomeno sto auspicando una trade union dell’arte per difendere la nostra categoria, o dei coordinamenti o gruppi di pressione per essere più forti sul territorio … Iniziative queste che ritengo positive ma che non sono il merito di questo intervento.

Il punto è che ci sono binari forzati. Ci sono delle forzature per chi fa arte nel nostro mercato. Questo è innegabile, ma sembra essere irrilevante, e viene continuamente ricordato in modo generico al di fuori di un qualsiasi genere di analisi approfondita da parte degli artisti. Creando questo modo di arrangiarsi, e qua e la dimostrarsi sensibili e interessati a cosa succede nel mondo.
Il punto è che una attività critica alle modalità di produzione culturale è praticamente scomparsa.
Il punto è che c’è una ideologia che opera nei processi culturali e non esiste un movimento coerente che cerca di costruire una offensiva coordinata contro di essa.

Attenzione, non sto parlando di qualità estetica, questa credo possa essere trasversale a tutti i campi di cui ho parlato, dall’industria istituzionalizzata alla realtà senza nome completamente disorganizzata. Semplicemente propongo di tenerla fuori. Non penso che la subcultura è arte e la grande industria no. Semplicemente la qualità estetica non è il punto.

Quello che propongo è invece un coordinamento delle produzioni artistiche all’interno di un mercato in cui la cultura opera come ideologia.

Voglio provare a proporre alcuni aspetti da cui non prescindere:

1_critica del modo in cui la cultura di massa opera. Credo che nello specifico la produzione culturale italiana nasconda una ideologia. Non credo ci sia un dittatore che manovra dall’alto. Ma credo che il mercato culturale abbia una logica  e che gli organismi politici ne facciano uso. L’industria culturale spesso mostra la sua maschera anche in modo plateale e senza filtri. In particolar modo nel modo in cui si costruiscono le eccellenze e il discrimine fra cultura di qualità e non, e nel modo in cui si archivia la memoria storica, e nel modo in cui si sdogana il lecito e l’illecito…

2_cirtica al post-moderno come brusio che tutto permette dal punto di vista stilistico, ma la cui coscienza politica è sempre più depotenziata. Un certo modo di mischiare i linguaggi, nel divertirsi a mescolare le carte facendo proliferare un generico gusto estetico. Gusto estetico che prolifera in tanti rivoli e declinazioni, una creatività innocua che a tratti accenna all’evasione, al virtuosismo tecnico, a tratti si accontenta del bricolage…(nota 1) è il destino verso cui si sta dirigendo molta dell’arte cosidetta di ricerca. Si è creato come un blocco nuovo che da una parte si sente libero dalle tradizioni, dall’altra non è animata da una necessità chiara.

3_critica di come il mercato è stato in grado di neutralizzare la coscienza critica. Non meno dei punti precedenti è importante evidenziare come la produzione culturale stia cercando di neutralizzare delle istanze reali dando loro la possibilità di trasformarsi in intrattenimento. Il mercato si interessa sempre di più a operazioni artistiche che rappresentano le istanze della società, che siano specchio delle necessità reali. L’arte non è un movimento politico, e occorre avere coscienza che se un contenuto politico viene incorniciato e immortalato come prodotto artistico ha perso la sua natura. L’arte deve rifiutarsi in ogni modo di assolvere a questo ruolo. L’industria culturale cerca continuamente di trasformare la trasgressione in uno stile, in un prodotto estetico. Questo perché è uno dei modi più efficaci per ricavarne soldi e disinnescare un dispositivo che altrimenti non sarebbe in grado di controllare.

Contro attacco:

In risposta al punto 1 un appello alla figura dell’intellettuale. Abbiamo bisogno di intellettuali che lavorano sodo. Bisogna non sottovalutare questo aspetto. Sta scomparendo una elaborazione viva e analitica sul rapporto fra arte e sviluppo economico, cultura e natura dei nazionalismi,  discriminazioni razziste e di genere. Non bisogna relegare l’analisi teorica in questa immagine fatta di personaggi introversi sociopatici concettuali e noiosi ricoperti dalla polvere. Pena condannare l’analisi teorica al giornalismo e alle opinioni personali alla “io cosa ne penso”… L’artista può rendere percettivamente più intenso un contenuto o un concetto teorico mediante la ricerca che porta avanti nel suo linguaggio, ma non si può sostituire ad una analisi teorica(nota2).

In risposta al punto 2 massimo impegno da parte degli artisti in quanto artisti a seguire delle pratiche verticali nella ricerca dei loro linguaggi espressivi. L’arte è linguaggio, è creare una percezione che può essere per sempre. Il limite è sottile. È chiaro che le grandi opere sono in stretto legame con i movimenti politici e storici in cui erano inserite. E tanto più l’artista come individuo è attraversato dalle contraddizioni della sua epoca tanto più l’opera è incisiva e chiara. Per questo motivo voglio rivendicare uno specifico dell’arte come linguaggio e uno specifico della coscienza poilitica come azione.

In risposta al punto 3 bisogna avere il coraggio di inventare delle strategie pratiche e averne massima coscienza. Una prima strategia è di favorire delle reti, sempre più strette di collaborazione fra pratiche artistiche e  critica teorica e luoghi di distribuzione.
Esempi di queste reti ci sono state e ci sono tuttora. Come piattaforme in qui l’esposizione e la produzione delle opere vengono accompagnate da discussioni critiche e pratiche condivise. In ogni caso strategie in cui l’opera artistica collocata in un contesto più complesso la trasforma in una operazione. Bisogna lavorare perché l’arte sia una azione all’interno di un movimento che veramente la oltrepassa.

NOTA 1
Questo è il vecchio problema delle avanguardie. Qualcuno ha intravisto che l’arte è politica… nel senso che l’arte ha il potere della grande trasgressione… l’arte può fare scoppiare il sistema… il sistema è ingiusto… l’artista diventa così il modello dell’uomo che si libera dal sistema, che si ribella, che riesce a fare a meno del sistema…. L’artista diventa il libertario…  se lotta ne è il simbolo, se soffre ne è la vittima, se muore ne è l’utopia. Ma quale è il punto? Rimando ad una riflessione di Asgar Jorn, uno dei protagonisti delle Internazionali Situazioniste del ‘900: il punto è che l’analisi critica della società si rifà al Marxismo.  Il marxismo è in primo luogo la denuncia di una disuguaglianza quantitativa… denuncia una ingiustizia economica… e tutto quello che ne deriva. Ma ad un certo punto si è inteso sganciare l’istanza della lotta dal problema delle diseguaglianze, ancorandola al problema dalla qualità della vità. La domanda è diventata: una volta che si ristabilisce l’uguaglianza economica cosa farà l’individuo? Sarà davvero in grado di emanciparsi da se stesso… riuscirà a stare meglio? A vivere liberato? Orientare in questo modo il problema è molto pericoloso, perchè trasforma il valore dell’arte in una specie di lusso. Si è sviluppata allora una seconda valenza simbolica del “fare arte”: e cioè non solo una pratica all’interno di un contesto che vuole scardinare le ingiustizie esistenti, ma anche la sapienza creativa di vivere più intensamente la vita al di là della lotta e dell’emancipazione dal sistema capitalistico…
Il problema è che a quasi un secolo di distanza da queste riflessioni… ora ci ritroviamo con due perversioni al posto di una. Da una parte il capitalismo non è morto, anzi è più forte di prima e le disuguaglianze sono aumentate… dall’altra questo gioco a fare il creativo, questa idea che fare l’originale fa sentir meglio…, si è talmente sdoganata che è diventato a sua volta un prodotto culturale con tanto di prezzo ed etichetta… il capitalismo ha risposto in questo modo: “non c’è bisogno di eliminarmi… puoi sentirti creativo proprio grazie a me, o con me”. E questo sta funzionando nella progressiva democratizzazione di una creatività blanda e depotenziata e un rafforzamento della cultura come industria.

NOTA 2
Bisogna evitare di fare gli artisti che vengono presi per intellettuali, siccome ho un palco faccio quello che ha capito un po’ di più degli altri di come va il mondo… se lo ho capito è perché faccio a mia volta parte di un dibattito teorico (e di esempi di artisti anche intellettuali ce ne sono parecchi, soprattutto nel passato), ma in quanto artista io parlo attraverso la mia opera e nulla più. L’opera ha un linguaggio e non deve essere spalleggiata da nessun ammiccamento.

Emanuele Braga

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