In-Erme

Parliamo dell’onda lunga e silenziosa della guerra.
Un sipario/sudario si apre su una giungla di microfoni e un bianco livido da dove intravedere le ombre del presente. E’ lo spettro del secolo che incombe su questi corpi schiacciati da una forza di gravità che li porta come a sciogliersi nel pavimento e poi resuscitare continuamente dal terreno per cercare una via di fuga, di rinascita cristallina. Ma questa volta i corpi non urlano, si dissolvono nella storia.

Il soldato lancia la sua sposa e la sua corsa per riprenderla è interrotta solo dal richiamo alle armi. I civili composti sopravvivono come in un presepe sghembo, e la madre torna comunque alla sua culla. I testimoni della guerra non riescono a parlarne e chi ha ordito i meccanismi ne rimane inevitabilmente incastrato.

Sono corpi che entrano, si intrufolano negli anfratti degli arti, girano rasenti al suolo, come una corrente, un brivido li attraversa, e li fa trasformare in draghi dalle lunghe chiome; qualcuno sostiene, qualcuno si arrampica, ci si lancia con amore e si viene ripresi al lazzo quando l’instabilità si fa pericolosa.
Tutti senza armi. Disarmati di fronte all’incubo lucido che il secolo scorso ha vissuto per intero; un filo lungo come una bava di ragnatela collega ognuno di noi ai suoi antenati, ai corpi che lo hanno preceduto, caduti sotto i colpi del destino di cui noi portiamo in carico la dote.
Il conflitto è in noi ed è un continuo patteggiamento con l’esterno. Per riprendere fiato cerchiamo una tregua, deglutiamo, un armistizio che diventa uno scivolo per altre guerre. Qui comincia la danza. Non credo sia macabra, neanche trionfante, piuttosto implacabile e maldestra come l’inarrestabile fluire dell’esistenza; in questa danza i corpi si affrancano da tutto quello che li fa dipendere dalla vita, diventano inalterabili , necessari, e tendono all’assoluto.
Davanti al sipario immagini pop luminescenti, dentro il vento della storia soffiato dalle corse degli uomini col cappotto, che cercano di salvarsi, di salvare.

Abbiamo combattuto troppo e male, passato e contemporaneità si fondono dove il monito del milite ignoto – che campeggia nelle piazze delle nostre città –  si scontra con il nostro sentimento d’impotenza. L’ambiente musicale si costruisce cerchio su cerchio, la voce del violoncello è materica, si dilaga nell’aria, si fa onda, e avvolge e sospende la scena in una dimensione atemporale. Il suono potente, invasivo, a tratti dissonante, è nutrito da loop evocativi che hanno la grana emotiva della voce umana, interrotti da vecchie melodie da musical e su tutto si innestano arcaici e poderosi canti liturgici echi di voci e grida ancestrali non ancora esausti che proiettano nel nostro presente fantasmi di guerre, mostri di potere, carne e sangue innocenti.

Michela Lucenti

In qui è inteso come prefisso negativo, corrispondente all’alpha greco, privativo. Si potrebbe anche tradurre con: non . Affronteremo il negativo, a quanto pare, almeno dal punto di vista del buon senso, del sentire comune (che poi sentire non è, ma molto meno). Terreno del tutto ostico: si scivola. Ma appunto casca anche questo a pennello, col nostro ardito affrontare l’in dicibile, l’in enarrabile che è una vita diversa, vissuta ai lati, ai margini, nell’ombra, anche quando intimamente convinta: di sé, di tutto, anche allora appartata.
Perché qualsiasi andare fuori dalla norma, suscita in chi straborda la paura, di non esser compreso, d’esser capro, di diventarlo, a espiazione degli altri. Paura storicamente motivata, incarnatasi a fondo. Ecco perché stanare i maestri di quest’in, non si può, forse: al massimo citarli. O forse portarli in luce per un attimo, per poi rimetterli nel buio di una tana. Allusione animale, quest’ultima: fuorviante? Non direi. Se mai riuscissimo a liberarci per davvero, del nostro paternalismo incancrenito, allora vedremmo forse in una luce, solo più vera, quel che abbiamo davanti. E la fragilità non si difende, né calpesta: si testimonia che c’è. E dà sapore al mondo, tutto qui.

Alessandro Berti

ideazione
Michela lucenti, Maurizio Camilli, Alessandro Berti


regia e coreografia
Michela Lucenti

drammaturgia
Alessandro Berti

creato e interpretato da
Alessandro Berti, Maurizio Camilli, Ambra Chiarello, Francesco Gabrielli, Sara Ippolito, Maurizio Lucenti, Michela Lucenti, Alessandro Pallecchi, Gianluca Pezzino, Emanuela Serra, Giulia Spattini, Isacco Venturini e con Tommaso Vaja

musiche originali eseguite live
Julia Kent

coro
Cantori da Verméi

drammaturgia del suono
Tiziano Scali

costumi
Chiara Defant, Marzia Paparini

luci
Stefano Mazzanti

coprodotto da
Festival Oriente Occidente / Fondazione Teatro Due / Centro Giovanile Dialma Ruggiero (La Spezia) / Fondazione Luzzati Teatro della Tosse onlus

con il sostegno del
MIBAC Ministero per i Beni e le Attività Culturali

ph Jacopo Benassi

ph Stefano Vaja

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